Passare una giornata sull’ Etna, non è stata una passeggiata o meglio, c'è stata anche quella, di ore, ma non è stata una cosa semplice sia a livello fisico che sotto l’aspetto morale.
La sera prima del tour, durante una cena a Catania, propongo l’idea di andare a fare un’escursione sul vulcano, idea che è stata presa con entusiasmo solo da Alessandro e quindi dopo esserci informati velocemente sulle strade da percorrere e l’itinerario da fare per poter vivere questa avventura, l’indomani di buon mattino siamo partiti più motivati che mai a compiere la "scalata".
Dopo avere attraversato paesini e cittadine caratteristiche, siamo arrivati al rifugio Citelli ad un altezza già ragguardevole di 1.741 metri. Chiesto informazioni sulle tappe da vedere ed il percorso più idoneo da fare, ci siamo incamminati verso l’entrata della pineta alle pendici del vulcano.
Potevamo trovare il sentiero giusto al primo colpo? Ma assolutamente no e così, dopo pochi metri di percorso ben segnalato e libero da arbusti, ci siamo ritrovati, tra una chiacchiera ed un altra, a dover “guadare” liscissimi fiumi di pietra e a fare lo slalom tra rami di alberi nati in mezzo a rocce e sabbia vulcanica.
Dopo circa due ore di cammino, una doppietta di cadute rovinose da parte mia, in cui ho temuto di dover salutare per sempre il mio menisco destro (già provato da un operazione in giovane età), scivolate sulla ghiaia nera e appuntita che mi hanno fatto perdere la sensibilità alle mani, siamo riusciti ad arrivare in una radura da cui poter ammirare in lontananza uno dei crateri di questo vulcano che dorme da molti anni, pur svegliandosi di tanto in tanto per sbuffare, sprimacciarsi il cuscino e riaddormentarsi.
Arrivati nella radura ormai stremati dalla salita e dal caldo del sole siciliano, vediamo sulla nostra sinistra in lontananza, delle persone sedute su quello che sarebbe dovuto essere il sentiero da seguire, ma che giustamente noi non abbiamo seguito per perderci dentro il bosco ed uscirne stanchi e doloranti.
Raggiunta la sommità, dopo aver notato sui volti dei ragazzi che poco prima avevamo visto da lontano, l’incredulità di vedere spuntare dal nulla due che avevano allungato la loro passeggiata di circa un ora, Alessandro ed io senza parlarci, instintivamente, ci siamo posizionati in due zone lontane l’uno dall’altro ad osservare il paesaggio e lo spettacolo che ci si è presentato davanti agli occhi. Vento e nuvole che si muovevano velocemente, nel giro di pochi secondi trasformano il paesaggio da luminoso e terso a nebbioso e grigio.
In quel momento, dopo aver recuperato fiato ed essermi ripreso dalla fatica della salita, sono stato investito da una moltitudine di emozioni; prima fra tutte la pace, un silenzio irreale spezzato solo dal rumore del vento che ti schiaffeggia il viso. Le nuvole bianche che nel momento in cui ti avvolgono con tutta la loro candida umidità, alterano il paesaggio e lo zittiscono ancora di più. Il freddo, a 2.000 metri di altezza pur essendoci il sole, ti colpisce e si fa sentire, non solo a livello fisico.
In quel momento la mia testa ha iniziato ad elaborare una quantità sproporzionata di emozioni, sensazioni e pensieri che solo un luogo come quello è riuscito a tirare fuori. Mi sono reso conto di quanto siamo piccoli, imperfetti ed impotenti davanti alla natura, di come Lei riesca a plasmare il paesaggio di questa terra, ma in qualche modo, sia riuscita a plasmare anche le mie emozioni. Ho provato un turbinio di sensazioni ben distinte, pace interiore, forza, energia, ma anche un velo di malinconia. Istintivamente dopo essermi risvegliato dal torpore in cui mi ero dolcemente lasciato andare, mi sono alzato e dopo avere fatto un grande respiro ho lanciato un urlo liberatorio; la mia voce si è persa tra le nuvole per poi essere tornata indietro portata dall’eco. Un urlo che forse solo l’ Etna ha capito cosa volesse dire.
Dopo esserci ricongiunti con uno spirito nuovo e temprato io e il mio compagno di avventura, abbiamo deciso di intraprendere la discesa, anche considerando che ormai era pomeriggio inoltrato ed il sole stava iniziando ad eclissarsi dietro la montagna.
Nuovamente, questa volta, discese rovinose su quello che io ho battezzato il carbone della Befana, (il ghiaino vulcanico ricorda il carbone di zucchero), gambe graffiate da arbusti spinosi e piedi doloranti (ovviamente io sull'Etna ci vado in Adidas), e per non farci mancare niente, un'altro cambio di percorso ovviamente nel bosco, ci hanno portato di nuovo sulla strada asfaltata che portava al nostro punto di partenza.
Prima di salire in macchina, ho guardato la montagna e mi è venuto istintivo dire un sonoro GRAZIE, facendo la promessa che sarei tornato molto presto a recuperare il pezzettino di anima che questa montagna irrequieta mi ha rubato.